Vivere l’amore con la Sindrome di Usher. Storia di una famiglia.

di
12 gennaio 2021

Scrivo dopo aver letto la splendida storia di Sophia e di Socrates (leggila qui).
E penso. E penso alla mia Princi e ai nostri primi 10 anni di matrimonio.

Penso alla prima volta che, in mezzo a tanti nuovi amici dell’università, ha detto, con tutta la naturalezza del mondo “Ao’ io non ce vedo e non ce sento. Se mi vuoi parlare devi alzare la voce”. E subito ho pensato che una persona così, non l’avevo mai conosciuta.

Io non ero innamorato e lei non era innamorata di me. Ma, fin da subito da amici, ci volevamo un gran bene. Io con lei stavo volentieri. Perché lei è sempre stata tra le persone più simpatiche che io avessi mai conosciuto. E poi ha una caratteristica per me davvero speciale: riesce davvero a vedere il buono negli altri. Anche quando non c’è. O almeno io non riesco a vederlo.

Penso ad una delle prime volte che eravamo fuori, insieme, al tramonto, (non era nulla di romantico…) senza altri amici e mi hai detto “Mo’ me devo attaccà al tuo braccio, ma non ce sto’ a provà” e abbiamo passeggiato insieme. Mi fa sempre ridere l’idea che mi aveva preso il braccio esattamente come fa una nonna con un suo nipote.

Passavamo sempre più tempo insieme. Dal braccio è diventata una mano perché “è vero che non siamo insieme, ma mi sembra di fare il badante”. Fino alla sera in cui mi ha detto

“Penso che tu sia la persona giusta per passare la vita con me. Io voglio passare tutta la vita con te.”

Stavo benissimo con lei. Era l’unica al mondo che, dopo 5 giorni di vacanza, avevo ancora voglia di vedere, di parlarci, di stare insieme… io, che come carattere, me ne sto molto bene anche da solo, ipercritico e molto lamentone. Ma non ero pronto. Sapevo che la mia risposta doveva, implicitamente allargarsi alla malattia. Io dovevo capire se riuscivo a vivere una storia senza che la malattia fosse l’unico elemento per valutare tutto. E mi venne fuori una risposta da bambino di 5° elementare: “ci devo pensare”. E in quei giorni ci pensai. Pensai tanto. Ero pronto per la malattia? Boh. Cosa sarebbe successo dopo 1, 2 ,5 ,10 anni? Boh. Ma cavoli, malattia o no, non ero mai stato così bene.

E siamo andati. Con le mie 1000 domande abbiamo iniziato a conoscerci. E io a conoscere sempre di più la Sindrome di Usher. Lì ho iniziato i miei esperimenti per capire cosa vedeva: “qui cosa  vedi? E qui? E qui?” Esperimenti che a distanza di 14 anni ancora mi servono per rubarle le patatine dal piatto. Oppure approfittare della sensibilità dei tuoi apparecchi per ascoltare le partite a vol. 2 in auto. e sembrando assolutamente interessato a ciò che dice. E lo so che lo sai, ma non dici niente. Perchè anche tu hai accettato la mia Sindrome di Dipendenza da Fantacalcio.

Abbiamo sempre riso molto sulla malattia. Penso sia stata la nostra medicina. Il nostro modo di esorcizzare qualcosa di grande. E il nostro modo di andare avanti. Ricordo ancora quel viaggio in macchina, quando stavamo discutendo e mi ha detto “Non voglio più ascoltarti, che palle, ho il vantaggio che se faccio cosi, non ti sento più” e si è staccata le pile degli apparecchi. Fantastico.

All’inizio non abituato al mio ruolo da “fidanzato” e ancor meno alla Sindrome di Usher: succedeva che la dimenticavo in qualche posto e poi, dopo qualche decina di metri in cui camminavo da solo, assorto nei miei pensieri, dicevo “Cazzo… l’ho dimenticata” e tornavo indietro a prenderla. Perchè non avevo ancora ben chiaro che cosa vedeva e cosa no e i miei occhi erano l’unico parametro per giudicare se un luogo, una sala erano abbastanza luminosi.  E puntualmente mi sbagliavo. Tornavo indietro e invece di trovarla giustamente arrabbiata, la trovavo con il sorriso. E insieme ridevamo.

Ma non ci sono stati solo sorrisi. Direi per fortuna. Saremmo stati solo due scemi. Ci sono stati tanti sorrisi, quello si. Che forse ci hanno aiutato nei momenti duri.  Ho visto anche lacrime, forse troppo poche. Ma ho visto soprattutto risate. Risate che ci sono servite per parlare della malattia ed è il nostro modo di vivere e sopravvivere ad essa. Abbiamo riso quando Vasco Rossi ti ha copiato la moda degli occhiali arancioni e ancora adesso quando per strada vediamo qualcuno con gli stessi occhiali lo chiamiamo “Collega!”

Dopo 4 anni abbiamo deciso che avremmo dovuto continuare a ridere per sempre insieme.  E, forse con un po’ di incoscienza, ma tante speranze, ci siamo sposati.

Ora abbiamo anche due bambini.i nostri prinicipini, 8 e 4 anni. Che la notte hanno sempre chiamato Papà perché la “mamma non sente”. Che hanno capito forse prima e forse meglio di me cos’è la Sindrome di Usher. E non è poi tanto un problema.

Che stanno imparando, nella normalità, a conoscere la malattia di mamma. Come quando la nostra piccolina si è infilata due palline di carta igenica nelle orecchie e ha detto “Faccio la mamma” imitando i suoi apparecchi o quando i bimbi mettono a posto i giochi “Cosi mamma non inciampa”.

E comunque anche qui abbiamo visto dei vantaggi. Tipo quando al parco dei divertimenti potevamo saltare la fila visto che avevamo la mamma… e cosa dire per un insonne come me, che ascolta la radio tutta la notte, avere la propria moglie che si toglie gli apparecchi? Il massimo.

Questi 10 anni sono passati, e la Sindrome di Usher è stata la nostra compagna. Ma non la principale. Importante, e sarebbe stupido dire il contrario, ma non determinante per essere una brava mamma o una moglie fantastica.

Alcune volte mi dicono “certo che sei proprio bravo!” con quel misto di pietismo e di ammirazione che mi viene da ridere perché mi immagino che davanti a loro non ci sia io, o meglio ci sia io ma con la faccia di Madre Teresa di Calcutta. E penso che no, non è vero. Il mio disordine, la mia eterna indecisione, la mia innata polemicità, ecc. non sono una sindrome, ma sono comunque difficili da sopportare quotidianamente.

Alla fine penso che dopo tutti questi anni abbiamo trovato un giusto equilibrio. Equilibrio che ci permette anche di dire che alcune volte è davvero pesante, sia per lei, ma anche per me. Ma che nonostante tutto si va avanti. Perché quell’attimo di pesantezza c’è, ma c’è anche tanto altro, soprattutto altro.

Penso a quei 5 giorni passati a riflettere e forse, nel mio cuore, già dopo 30 secondi avrei avuto la risposta per te. Ma quei 5 giorni giorni sono serviti per trasformare la risposta di un attimo in una vita intera.

di Marco

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