Diritti delle Persone con Disabilità: Undici anni di Convenzione ONU

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3 marzo 2020

Sono passati esattamente undici anni da quel 3 marzo 2009, quando venne approvata la Legge 18/09, che ratificò la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, rendendo quest’ultima una legge italiana. Quanta conoscenza abbiamo di questa Convenzione che ci riguarda tutti e a che punto siamo con la tutela dei diritti da essa sanciti? Nadia Luppi, che si è occupata tra le altre cose anche di diritti umani, condivide qui le sue riflessioni relativamente a questo importante anniversario.

Quante volte nella nostra carriera di persone con disabilità ci siamo chiesti se le sfide che stavamo vivendo erano conseguenze inevitabili delle nostre mancanze, del nostro non vedere o non udire o non camminare? Quante volte ci siamo arrabbiati perché i nostri diritti erano calpestati da un sistema sanitario, sociale e di welfare poco attento alle reali esigenze di noi che abbiamo un’oggettiva difficoltà? In quanti di noi si sono sentiti soli, come se non esistesse niente a difenderci oltre la nostra rabbia e – quando va bene – le nostre associazioni? Ma quanti di noi conoscono davvero gli strumenti legislativi italiani e internazionali a tutela dei nostri diritti e ne fanno un uso responsabile?
E’ vero che in Italia siamo soliti rimarcare che “fatta la legge, fatto l’inganno” e ad una tradizione millenaria di diritto corrispondono le più viscide contraddizioni, ma è pur vero che la legge deve essere una risorsa conosciuta e tenuta viva giorno per giorno perché possa essere goduta nella realtà.
Ecco perché scrivo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, (UNCRPD) adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2006 e ratificata dall’Italia il 3 Marzo 2009, convinta come sono che si tratti di un documento che vale la pena conoscere e che ha ancora tanto da insegnare.

Prima di tutto ricordiamo che la UNCRPD sancisce i diritti fondamentali delle persone con disabilità da proteggersi in tutto il mondo. I diritti sanciti dalla Convenzione sono definiti fondamentali, cioè non negoziabili, dal momento che rispecchiano bisogni che se non accolti, possono compromettere il percorso di sviluppo umano dell’individuo.
Avere un’istruzione, potersi realizzare lavorando o facendo vita di comunità, decidere in autonomia ove possibile come curarsi, vivere una dimensione affettiva e sessuale piena e soddisfacente… Questi – ricorda la Convenzione – non sono favori o possibilità da riservare ai disabili che vivono in situazioni o contesti socio-economici e culturali privilegiati, ma da garantire a chiunque viva una condizione di disabilità come a qualunque altro essere umano. Come a dire che la scarsità di risorse o di mezzi o di cultura NON è e non può essere una giustificazione plausibile per qualunque mancato intervento a favore dell’inclusione delle persone con disabilità.

L’approccio globale della UNCRPD ci dà la possibilità di riflettere anche sulla complessità dell’impatto di condizioni di svantaggio e handicap in corrispondenza di differenti contesti nazionali e culturali. Chiediamoci come cambia la percezione della disabilità e del handicap col variare del paese in cui viviamo e della cultura di appartenenza, e chiediamocelo soprattutto oggi, quando il fenomeno migratorio ci obbliga a riflettere in senso più ampio su questi temi e quando – fortunatamente – è più facile di un tempo trasferirsi all’estero per lavoro o altro.
Per tutti i disabili e ovunque nel mondo si tratta di riconoscere – come ricorda il motto della UNCRPD, che “Disability is a socially created problem” . La disabilità non è qualcosa che riguarda l’individuo, ma è qualcosa che appartiene alla sfera sociale, alla dimensione comunitaria. Come a dire che esistono le diversità, ma se queste diversità danno origine al problema che chiamiamo disabilità, è perché non abbiamo gli strumenti a livello sociale per accogliere, valorizzare, includere.

E’ una rivoluzione copernicana nel modo di considerare la disabilità, ed è facile intuire che cambierebbero volto servizi e comunità se essa potesse rispecchiarsi totalmente sul piano reale. Ma a cosa dobbiamo questo cambio di paradigma? Sicuramente è stato un riflesso dell’approvazione dell’ICF (International Classification of Functionings) da parte dell’OMS nel 2001: quello fu il momento in cui le classificazioni internazionali utili a descrivere e categorizzare le disabilità smettevano di concentrarsi su handicap e malattie per guardare a come un individuo funzionava, banchè fuori dagli standard.
Ma non finisce qui. La Convenzione parla di disabilità in termini nuovi perché è stata redatta non da “esperti” o “uomini di legge”, ma da associazioni e persone che vivono la disabilità e di disabilità si occupano in tutto il mondo. Nella Convenzione infatti si dichiara con grande forza che la partecipazione è alla base di qualsiasi politica a favore dei disabili. In un motto “Niente per noi senza di noi”.

A undici anni di distanza dalla ratifica della UNCRPD spiace constatare che accade ancora fin troppo spesso che siano “altri” a occuparsi di disabilità, “altri” a promuovere progetti per l’inclusione sociale, “altri” a supporre i nostri bisogni e che ci sia ancora poco spazio nelle stanze dei bottoni per una partecipazione concreta. Di converso spiace notare che si fa ancora troppo poco per l’empowerment delle persone con disabilità, mentre persiste il tentativo di medicalizzare lo status di disabile con buona pace di un fare assistenzialista che ancora resiste.

La strada del cambiamento è ancora lunga, ma è bene ricordare che la partecipazione corrisponde – non mi stancherò mai di dirlo – ad una presa di consapevolezza e di responsabilità da parte di noi che viviamo la disabilità in prima persona.
Non si tratta semplicemente di rivendicare diritti o peggio di pretendere favori, ma piuttosto sentirci invitati a dare il nostro meglio – in accordo coi nostri limiti – alla comunità in cui viviamo per contribuire al cambiamento. Solo in quest’ottica diventa giusto e sacrosanto chiedere che chiunque si occupi di noi ci coinvolga attivamente e fattivamente. Come a dire che vogliamo essere coinvolti ma dobbiamo tenerci pronti e al passo coi ritmi della partecipazione. Questo significa confrontarsi, mettersi in gioco, guardarsi dentro, prendere coscienza dei propri limiti ed esplorare i propri talenti, farlo insieme agli altri perché anche la storia della Convenzione ONU dimostra che è l’insieme che vince.
In questi anni ho visto crescere progetti ideati e realizzati dai disabili e dalle loro associazioni, ho avuto la fortuna di promuovere azioni progettuali in questo spirito e sono riuscita a ritagliarmi – non senza sacrificio – genuini spazi di realizzazione personale e professionale in questo senso, per cui lungi da me pensare che il cielo sia nero.
Ho la fortuna di fare parte di Noisyvision Onlus – una squadra e una rete in cui costantemente abbattiamo pregiudizi e muri per incontrarci nelle nostre diversità, e sono certa che questa prospettiva è condivisa da tanti altri. Per tutto questo, pur nella consapevolezza del grande lavoro che ci viene chiesto e dell’urgenza di proseguire con la sensibilizzazione, l’informazione e la costruzione di ponti e legami, rileggo gli articoli della Convenzione e sorrido perché so che se ce la mettiamo tutta e ci impegnamo insieme, quelle parole possono diventare azioni, giorni e possibilità.

Nadia Luppi

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